Riemersi con lui dal Giordano

Battesimo del Signore (Is 40,1-5.9-11; Tt 2,11-14; 3,4-7; Lc 3,15-16.21-22)

I buoni sentimenti non durano, il calore delle feste del Natale si raffredda, le luci delle emozioni si stemperano. E il rischio è di rimettersi nella corsia ordinaria del tempo come se tutto fosse rimasto uguale. Per questo la tradizione della Chiesa ci fa partecipi, dopo il Natale, di tre manifestazioni divine, di tre modi in cui si manifesta e chiede di essere accolto il mistero celebrato nella Natività.

Ciò che abbiamo vissuto, infatti, sconvolge e riempie il tempo che noi viviamo, quello solito e ordinario, perché si fa ordinario il modo cui Dio si manifesta. E ordinario è anche il modo in cui ci chiede di manifestare l’amore che ci ha raggiunti, la vita nuova che ci è stata donata. 

Per questo, dopo la manifestazione ai Magi, ci è offerta la manifestazione al Giordano (a cui segue, nella tradizione ecclesiale e, quest’anno, anche nella liturgia di domenica prossima, la manifestazione alle nozze di Cana).

Gesù scende nel fiume Giordano per farsi battezzare con tutto il popolo e lì Dio rivela il suo volto nel volto del Figlio. Ha inizio così il ministero di Gesù, la sua opera di condivisione e di dono, di annuncio e di cura, di amicizia e passione. 

Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16)

Ci sono sempre attese da coltivare, speranze da suscitare, ricerche da alimentare. Ci portiamo nel cuore mille domande su noi e sulla vita, sugli altri e sulla storia, sul passato e sul futuro. Sono domande che spesso risolvono questioni e problemi, che ci facilitano l’ardua impresa del vivere. E poi ci sono domande che restano lì, sempre in attesa di un tempo buono, sullo sfondo di ogni altra cosa. Sono domande che possiamo anche ignorare, far tacere e lasciare fuori. Eppure, se anche avessimo risolto tutte le questioni del vivere, resterebbe sempre quel dubbio che assale: posso avere salvezza? Dove trovo ciò che mi salva, che mi libera e mi redime? Dove trovo la forza di vivere come io non riesco, di fare ciò che non voglio, di essere meglio di ciò che sono? Dove trovo salvezza se so che sono pieno di ogni marciume, che sono bloccato in ogni mia cosa, che sono perso in ogni frammento? Dove trovo la mia unità, il mio stile e la mia storia? Dove ritrovo il mio volto nuovo che non abbia bisogno di mille maschere, di tante scuse e tanti distinguo? Dove posso sentirmi me stesso, amarmi perfino e volermi bene? E cos’è questo sentire mancarmi il respiro, sapere che è breve il tempo in cui vivo, provare il brivido di non avere terra su cui posare per sempre i piedi? E mille altre questioni, sepolte e nascoste tra altri pensieri, tra tante faccende che, a volte, hanno solo lo scopo di tenerci impegnati per non sentire l’eco tremendo di queste domande, il suono assordante di ciò che non sappiamo.

E poi capita sempre un momento di stanchezza o di esaltazione, di bisogno o di soddisfazione, in cui pensiamo di aver trovato, di aver finalmente risolto il mistero. Pensiamo di sapere perché viviamo, di aver trovato chi ancora cerchiamo, di potere, almeno un po’, riprendere fiato.

Giovanni, però, a dispetto dei tanti profeti odierni, non si offre come la soluzione, non si presenta come risposta, non si offre come l’approdo. Ogni meta è sempre penultima, ogni esito è sempre parziale. Giovanni annuncia Colui che è più forte, colui che immerge ogni vita nella vita divina, Colui che purifica e plasma ogni cuore, che riscalda e modella la vita.

Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera (Lc 3,21)

Ed è al Giordano che avviene l’evento e Dio manifesta suo Figlio. Il Giordano è terra di frontiera e passaggio. Da lì il popolo era entrato nella terra promessa e da lì ne era uscito per andare in esilio. Quel fiume è spartiacque e confine, è limite che segna il passaggio dalla libertà alla schiavitù.

È terra di frontiera, perché è sempre in bilico la vita degli uomini e dei fedeli. Ciascuno è sempre in cerca di identità e sempre a rischio di diventare nessuno. Ed è qui che tutto il popolo si fa battezzare. Si immerge nella sua debolezza, riconosce la sua fragilità. È qui che ciascuno denuncia il proprio peccato, la propria difficoltà a restare libero, a restare fedele alla promessa di Dio.

È un popolo che sa cosa significhi oltrepassare quel fiume, penare ed essere oppresso, scappare ed essere esule. E per questo ha anche imparato che per essere liberi bisogna prima riconoscersi schiavi, sentirsi oppressi dal proprio male. Per diventare puliti bisogna prima sentirsi. E il popolo compie quel rito che dice la voglia di restare sulla terra promessa, di restare fedele al Dio che ha promesso. È un segno, nulla di più, con il quale ciascuno si immerge nella propria miseria, riconosce la propria morte e invoca il perdono e una vita più buona.

E fa strano che anche Gesù abbia appena varcato quel fiume, si sia immerso nel peccato del popolo, sia sceso nel confine ultimo. Egli, che è Dio fatto uomo, si fa ancora più umano entrando tutto nel limite estremo, nel confine che porta alla morte, nella miseria che rende schiavi. Gesù condivide il peso del male, lo afferra e lo fa suo. Il suo scendere nel fiume Giordano è una delle tante sue discese, del suo dirsi e darsi a tutti, del suo consegnarsi fino alla morte.

L’Emmanuele è Dio con noi e sceglie di stare dove noi stiamo, anche in quel fiume che è come ripieno dei peccati del popolo. Egli vi scende non per depositare lì i suoi peccati e i suoi errori, ma per caricarsi di quelli che lì ognuno ha lasciato cadere. Si immerge nel male e se ne fa carico, si immerge nella morte per farla sua perché la morte diventi solo una parola che dice che Dio è sempre con noi.

E poi la preghiera. Dopo il battesimo Gesù si ferma a pregare, a custodire nel dialogo e nell’amore la vita divina che vive in lui. In lui il cielo si unisce alla terra, Dio e l’uomo vivono insieme. Egli prega, cioè vive in Dio vivendo tra gli uomini, porta in Dio il peso degli uomini. E anche per noi la preghiera è dialogo che mantiene vivi, che allarga il cuore e ridona la vista, che apre le labbra e ridona la forza. Gesù prega. Non sappiamo se egli dica parole, se abbia bisogno che il suo respiro si faccia voce, ma sappiamo che pregare è sentire che proviene dall’alto il nostro respiro, che la vita è dono, che c’è sempre bisogno di tessere e rammendare la vita divina che vive in noi. E solo Dio può ancora farlo.

il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba (Lc 3,21-22a)

Ed è allora che accade l’evento. Dio manifesta se stesso mostrando e additando suo Figlio. Il cielo, chiuso da secoli e ormai muto, si apre e Dio riprende a visitare la terra, anzi mostra, per sempre, che egli ha scelto di essere uno di questa terra. Quel cielo aperto e mai più richiuso è certezza che nulla è mai perso, che nessuno è ormai sconosciuto, che nessuno è solo per sempre. 

Dio ha aperto il suo cielo, ha infranto ogni distanza, ha abbattuto ogni barriera. E dal cielo discende lo Spirito Santo, discende l’Amore e Dio si fa dono. Lo Spirito scende visibilmente, in forma corporea, come una colomba. E ha inizio la nuova creazione e ha inizio la vera pace. 

e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Lc3,22b)

E poi la voce che tutti ascoltano. Dio chiama Figlio quell’uomo che è sceso nelle miserie umane, che si è bagnato con l’acqua del fiume. Egli è ora pronto ad affrontare la fatica e il dolore di abbracciare e accogliere in sé ogni peccatore. È quello il Figlio che Dio ama, è di lui che il Padre si compiace. Ecco il Natale che si fa quotidiano: Dio è venuto per entrare nelle nostre morti, per accostarci nelle nostre miserie. È venuto per restare tra noi come Figlio che ci rende figli. È nel suo dono che noi viviamo, è nel suo amore che noi possiamo ancora attraversare il fiume Giordano per entrare per sempre nella patria dei figli ed essere per sempre nella casa di Dio. E tutto il mondo è diventato dimora divina. Ed è questa per noi la salvezza! E occorre rileggere per intero la seconda lettura, per comprendere appieno ciò che avvenuto.

Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro,
e il suo amore per gli uomini,
egli ci ha salvati,
non per opere giuste da noi compiute,
ma per la sua misericordia,
con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo,
che Dio ha effuso su di noi in abbondanza
per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro,
affinché, giustificati per la sua grazia,
diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.
(Tt 2,11-14; 3,4-7)

Al Giordano è apparsa la grazia, il dono di Dio che si è fatto dono. Il Figlio ha dato se stesso per noi e riemergendo dal Giordano come dal sepolcro egli ha portato salvezza a tutti gli uomini. Si è immerso nelle nostre paure e nei nostri peccati per insegnarci la via della vita, per mostrarci che con lui è possibile vivere in modo nuovo. Non possiamo farlo da soli, non ci riusciamo. Non ci basta nemmeno il suo esempio. Non è venuto come maestro o modello. È venuto per darci stesso, per renderci suoi, per renderci tutti un popolo puro che ora può vivere in questo mondo sapendo però di appartenere a lui.

È salvezza sapere che non puoi vincere il male, non puoi riscattarti e liberarti da solo. Egli è il Figlio che ti rende figlio, è il Dio che ti rende divino. E anche su di te, se ti fermi in preghiera, se accogli il dono che hai ricevuto, se ti immergi col cuore nell’acqua che ti ha bagnato, nel battesimo che tu hai ricevuto, anche tu risenti la voce: tu sei il Figlio mio, l’amato. Anche a te egli ha donato il suo Spirito, che è germe di vita nuova, fuoco che deve spandersi, amore che deve allargarsi. 

Dio si è manifestato rendendoti figlio, liberandoti dal male che assedia la vita e donandoti la possibilità di vivere in questo mondo con atteggiamenti e azioni nuove. Puoi compiere le opere buone perché è lo Spirito a compierle in te. E nel tuo Giordano, nelle acque battesimali, Dio ti ha fatto attraversare, una volta per tutte, quel confine che sembrava impossibile. Sei entrato su terra divina perché per te Dio ha reso divina tutta la terra. Sei entrato nella sua casa e ci sei entrato da figlio. Per questo puoi riprendere il tuo cammino, puoi camminare nel tuo ordinario vivendo ogni giorno da figlio con lo sguardo rivolto a quel cielo che è ancora aperto, con il cuore che si ferma in preghiera perché la vita nuova che hai ricevuto respiri del respiro divino.

E allora puoi, in ogni momento che vivi, sentire e dire parole che non ti aspettavi:

 Sali su un alto monte,
tu che annunci liete notizie a Sion!
Alza la tua voce con forza,
tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere;
annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio!
» (Is 40, 9)

Liturgia della Parola

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