La vita è un rischio da correre

XVII Domenica Tempo Ordinario Anno B (2Re 4,42-44; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15)

Per seguire Gesù bisogna muoversi all’altra riva, bisogna uscire e vivere l’esodo, mettersi in viaggio e restare scoperti perché sia scoperta la fame e il bisogno. Gesù, che visita città e percorre le strade consuete, è colui che sceglie anche di attraversare il mare e salire sul monte. 

Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. (Gv 6,1-4)

Gesù li attrae lì, quasi in un’imboscata, perché lì, lontano da ciò che soddisfa i loro bisogni, lontano da ogni certezza, lontano da ogni rassicurante rimedio, la folla impari ad esporsi nuda, a mostrare il suo bisogno di vita, a far vedere la sua fame non ancora appagata. Provoca l’esodo che espone al deserto e alla fame, che rende nudo il bisogno e il cuore.

È un esodo che porta all’incontro, è un’uscita che ricorda e sa di liberazione. 

E Gesù, nuovo e vero Mosè, sul monte si pone a sedere. E il monte ricorda la parola donata a Mosè, il patto da Dio mai rinnegato. E i monti sono luoghi di grazia perché rivelano il volto di Dio e quello degli uomini. E quel monte sul quale egli si siede unisce il monte di Dio, dal quale egli ha donato la legge, e il monte dell’uomo sul quale Gesù, morendo, dona la vita e lo Spirito.

La folla, però, non è attratta e sedotta da ciò che i segni indicano e mostrano, ma solo dai suoi gesti che fanno miracoli. E ora quella folla, che segue il miracolo, che segue i portenti che egli ha compiuto, è spinta da lui a vivere una Pasqua che diventa nuova e inattesa. 

Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui  (Gv 6,5)

E Gesù alza gli occhi e vede la folla venire e vede la fame che ciascuno si porta dentro. 

Egli vede con gli occhi del cuore, che intuiscono il desiderio e i bisogni dell’uomo. Vede la fame perché vede il tormento che non trova pace, l’ansia che non trova riposo, l’inquietudine che non trova requie. Sente la fame che lo stringe attorno, hanno tutti bisogno di cibo perché hanno tutti bisogno di vita. 

E c’è fame anche oggi, fame di tante cose, una fame che occorre vedere. C’è in noi e nel mondo tanta fame diversa, tanti desideri che rubano e fermano il cuore. C’è fame di pane e di sogni, di beni e di bene, di cibo e di senso, di opportunità e di dono. C’è sempre fame di vita! E c’è ancora fame di pane, bisogni primari da soddisfare. Tanta gente continua anche oggi a non avere cibo e a morire di fame e anche per loro è narrato questo segno d’amore. La ricchezza del mondo è racchiusa e stretta in poche mani che trattengono la vita degli altri, che tolgono il fiato e il respiro a tanti che, invece, proprio loro, potrebbero ancora insegnarci il segreto di una vita riuscita.

Ma non solo. Perché c’è anche la fame di coloro che sono sazi, ma non sanno trovare cibo per placare il desiderio e il bisogno di senso. E c’è la fame di coloro che hanno dimenticato di avere fame, di coloro che hanno drogato e messo a tacere il desiderio di vita che in loro continua ad urlare. E molti non sanno più riconoscere quel grido che chiede di essere ascoltato e preso sul serio. 

C’è fame di vita che si sappia viva, di amore che sappia sorprendere, di cuori che sappiano battere.

E disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». (Gv 6,5-7)

E Gesù provoca i discepoli e gli eventi. Dove si può comprare il pane perché tutti abbiano da mangiare? È la domanda di oggi, è la nostra domanda, di noi che pensiamo che tutto possa essere comprato, basta solo conoscere il prezzo. Si compra l’amore e gli affetti, l’amicizia e la vita, si compra la salute e l’eterna giovinezza, si comprano illusioni e si compra la fama, si compra la stima e si compra il successo. Basta avere un po’ di denari e tutto sembra a portata di mano. Perfino una vita serena e una grande autostima, la capacità di amare, di stare insieme, la gioia di vivere e ogni soddisfazione. C’è un mercato per tutto. E poi, dopo aver tentato di comprare tutto ciò che ci serve per restare vivi, resta sempre quella fame che non ci abbandona, quel desiderio che ci attanaglia e ci scuote dentro. 

E noi, che pensiamo di aver tutto ciò che ci serve, dimentichiamo che ci sono i poveri, quelli che non hanno di che sfamarsi e che non possono restare vivi perché non hanno il pane per sopravvivere. E anche per loro, per sfamare i poveri che anche oggi hanno fame, non basta l’economia, il mercato e le sue leggi. Non basta il commercio e non servono nemmeno i progetti a ciò dedicati. Non bastano i soldi se non cambia la logica e non cambia il cuore. Folle di poveri continuano oggi a morire di fame eppure ci sono soldi nel mondo per sfamare molta più gente di quella che ha fame. C’è cibo sufficiente a sfamare ogni uomo. Eppure non bastano i soldi e non basta il cibo perché ci vuole altro per rendere possibile il pane per tutti. Ci vuole il coraggio del rischio e del mettersi in gioco. La voglia di prendere quello che abbiamo, di rischiarlo condividendolo insieme. Ci sono mense in cui i ricchi siedono tristi e ci sono poveri che sanno far festa con il niente che hanno. 

E ci sarebbe tanto da dire e pensare per noi, che abbiamo fondato un mondo sull’economia. Fa riflettere che il principio e il valore su cui tutto è fondato e misurato sia il denaro, il mercato e la sua borsa. È qualcosa che noi abbiamo inventato e che da servo è diventata padrone, da strumento di vita ha fatto diventare la nostra vita suo stesso strumento. Eppure la storia continua e ci sono momenti in cui scorgiamo segni che sono nuovi e sovvertono gli stessi valori economici ai quali abbiamo consegnato la misura di ogni altro valore. 

Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». (Gv 6,8-9)

C’è un ragazzo che ha poca cosa: cinque pani d’orzo e due pesci. Non sappiamo il nome di questo ragazzo, né la sua storia e il suo volto. Non sappiamo nemmeno perché avesse con sé quella che diventerà un’enorme ricchezza. E mi immagino una madre un po’ premurosa, una di quelle di sempre che, anche per qualche ora di viaggio, preparano provviste per giorni interi. Pani d’orzo, pani delle primizie e del primo raccolto e d’orzo è anche il pane dei poveri.  Sono sette cose che sembrano nulla. È quel poco che viene rischiato e scommesso. Perché vivere non è avere e afferrare molto, ma avere il coraggio di scommettere tutto, di arrischiare ogni cosa, mettendo tutto nelle mani di un altro. Vivere è sempre un rischio e si vive solo gettando in avanti il proprio piede, arrischiando sempre la vita, spendendo sempre un po’ di se stessi. Non è vita quella composta e ben custodita, quella nascosta e preservata per i giorni migliori. Non serve una vita che non viene spesa, una storia che non si fa condivisa, un cuore e un corpo che, per paura di perdersi, non vivono il fascino e il brivido di essere vivi.

Quel ragazzo non è ancora un uomo, è giovane e imberbe. E bisogna essere giovani e poveri per rischiare e scommettere forte. Se non sapessimo come va a finire la storia, se avessimo il coraggio di essere pienamente noi stessi, dovremmo dirci che quel ragazzo è ingenuo e poco accorto a mettere il suo povero cibo a servizio dell’impossibile. Quel cibo bastava per lui, è rischioso ora metterlo a disposizione di tutti. È gesto inutile e senza misura. È spreco di vita che non ha senso. È goccia che si perde e secca la gola. Cos’è questo per tanta gente? Cos’è quello che io possiedo se sono in tanti a morire di fame? Cos’è questa mia persona se sono in tanti ad averne bisogno? Cos’è questa mia intelligenza, questo mio cuore, questo mio corpo se sono in tanti ad aver fame e ad aver bisogno di qualcuno che li mantenga in vita? Cos’è questo mio essere credente e un po’ discepolo se è ancora tanta la fame di chi non ha un senso, il bisogno di chi non sa dove trovare riposo, il grido angosciato di chi soffre e non vede luce nelle sue tenebre? Ma posso davvero rischiare quello che ho, quello che ho ricevuto e custodito? Posso davvero rischiarlo anche se so che non servirà a niente? Non basterà perché tutti possano mangiare, perché ciascuno possa trovare la vita che sembra sfuggirli di mano.

Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. (Gv 6,10)

Davanti a questo gesto che non ha senso, a questo dono che non risolve, Gesù invita i discepoli a far sedere la folla, a farla sdraiare come si fa nelle feste. E l’erba era molta in quel luogo. È primavera. La primizia di un tempo che si fa nuovo e ormai anche il deserto è pronto a fiorire. E l’erba è molta perché quando il Pastore ha cura del gregge tutti i pascoli si fanno erbosi. 

È vicina la Pasqua dei Giudei, quella che ricorda che Dio anche nel deserto ha guidato e sfamato il suo popolo. E ora Gesù qui quasi anticipa la Pasqua che sta per venire, quella nella quale donerà il suo corpo come cibo perché ogni deserto, anche l’ultimo, sia attraversato con la forza e il coraggio di chi sa di avere Dio dalla sua parte, Dio che si è fatto cammino e si è fatto pane, Dio che ha vinto la morte perché ogni morte diventasse deserto da attraversare, luogo in cui rifiorisce la vita, in cui la primavera mette già i suoi germogli. 

Ed è per questo che Gesù compie qui, per la prima volta, quelli che saranno gesti eucaristici.

Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. (Gv 6,11)

Prendere, rendere grazie e dare. Sono i gesti che rendono viva e autentica la vita. Sono i gesti del rito e della vita che dal rito rinasce. Non si salva la vita e la storia se non diventano Eucaristia. Perché l’Eucaristia non è un rito staccato e lontano, non è una parentesi del nostro vissuto, non è una pausa tra le cose del mondo, non è un ritiro per riprendere fiato. L’Eucaristia è rito che prende la nostra vita, quel poco che ancora abbiamo, ringrazia e dona vita che si è fatta nuova, vita che è fatta divina. Eucaristia è offrire il poco che siamo perché nelle mani di Dio quel poco ci venga donato divino e venga dato a tutti quelli che ne hanno bisogno. Eucaristia è Dio che prende in mano la nostra storia e la trasforma nella sua storia, prende la nostra vita e la rende cibo per la vita di tutti, rendendola presenza di un corpo nuovo, rendendola segno e presenza del Cristo vivente. L’Eucaristia dice e trasforma la vita, la informa e la conforma.

Non possiamo separare i bisogni. C’è solo una fame che ha molti volti e direzioni. E non si può placare una fame senza prendere a cuore anche l’altra. C’è nel mondo gente affamata di pane e altra affamata di vita, alcuni non hanno nulla per vivere e altri non sanno per cosa vivere. Alcuni non sopravvivono per mancanza di tutto e altri non sopravvivono perché anche aver tutto non basta alla vita. 

Non possiamo schiacciare la fede su uno dei fronti nei quali essa è chiamata a ridonare speranza. Bisogna guardare ad ogni fame presente nel mondo: ai problemi dei poveri che hanno fame di cibo, ai sazi che hanno fame di senso e di vita, a tutti, perché tutti hanno fame di amore e di perdono. Non si può schiacciare la fede su uno solo di tutti i versanti.

E allora ecco l’Eucaristia, il dono che si fa condiviso, l’offerta che si moltiplica, il pane che non si consuma. L’Eucaristia ha a che fare con tutto perché è l’anima e il cuore di tutto perché tutto è chiamato a diventare eucaristico. 

Ma è Gesù a distribuire e rendere sazi. È lui a vagare tra la gente sul monte per donare ciò che un ragazzo gli ha appena donato. E il miracolo è tutto qui, in questo continuo passaggio di doni. Il miracolo è un pane che passa di mano in mano, un pane che passa dalle mani di un ragazzo, che pure quel pane ha ricevuto da ancora altre mani, alle mani di Gesù e dalle sue a quelle di tutta la folla. L’Eucaristia è un passaggio di mano in mano, di vita in vita, di dono in dono, un passaggio nel quale la vita di tutti diventa la vita di uno, dell’unico che ci rende vivi, dell’unico che “opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti”. La vita diventa eucaristica, continuo passaggio di doni, pane che passa di mano in mano per dare vita alla vita di tutti. 

E Dio è all’inizio, al centro e alla fine di questo donare, di questo sfamare la vita di tutti perché è lui stesso che si fa cibo, che prende corpo nei nostri corpi per renderci in Cristo un solo corpo.

È vero, non basta l’Eucaristia per la vita di tutti, non basta celebrare Messe perché sparisca la fame nel mondo, eppure l’Eucaristia è ciò che serve perché tutti possano vivere e imparare a condividere. Perché solo quei gesti, solo quel pane che viene spezzato e condiviso, quel corpo che viene accolto e che assimila a sé ci abilita a fare eucaristia di tutta la vita, un dono per la vita di tutti. E spezzando il pane del cielo si diventa capaci di spezzare, condividere e far bastare e anzi avanzare anche il pane di questa terra. 

E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. (Gv 6,12-13)

E Dio è lì a saziare la nostra fame, a ricordarci che quel pane è sempre abbondante perché donato senza misura. Ma nulla deve andare perduto perché nessuno sia perduto per sempre. C’è ancora pane per tutti, c’è ancora cibo per ognuno che ha fame. E i discepoli ne sono i custodi. Siamo noi i custodi di un pane che non ci appartiene e che serve a sfamare la vita e la storia di tutti quelli che ancora verranno.

Ne avanzarono dodici canestri. Perché nessuno possa più avere fame, perché tutti possano avere un senso e tutti possano dal pane essere custoditi e salvati. Siamo i custodi del pane per diventare i custodi dei nostri fratelli, di quelli che ancora hanno fame, di cibo e di parola, di vita e di senso. 

Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo. (Gv 6,14-15)

Il segno rischia sempre di venire confuso. E anche oggi le azioni di condivisione, di carità, le opere che noi Chiesa compiamo nel mondo sono vere se restano segno, se permettono di guardare oltre, se ricordiamo che, seppur necessarie, non bastano. Non si è Chiesa senza la carità e la condivisione, il bene fatto per i poveri e gli esclusi. Ma non basta questo per essere Chiesa, presenza di Cristo nel mondo. E non possiamo cedere alla tentazione di rinchiudere tutto in questo mondo, in questa fame e bisogno di beni.

Gesù non cede alla tentazione del pane quando nel deserto è tentato ed ha fame. E non cede ora alla tentazione di attrarre e sedurre le folle, di diventate il loro re solo perché sa donare quel pane che la fame del corpo richiede.

Si ritirò solo sul monte per sottrarsi a logiche solo terrene, solo interessate a sfamare e nutrire i corpi, a restare incastrate nel bisogno di sopravvivere e salvare la pelle. 

E possiamo imparare anche noi a condividere e donare il pane senza legare e aspettare consensi, ma richiamando ancora sul monte, a salire ancora più in alto, perché il pane vero viene solo dal cielo.

Liturgia della Parola

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