Parola

Riposo ed esodo perché la missione diventi attrazione

XVI Domenica Tempo Ordinario Anno B (Ger 23,1-6; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34)

Non basta la missione dei Dodici, non basta andare nelle città. Non basta nemmeno essere visitati da coloro che hanno un potere divino. Per sapere e vedere che c’è un Pastore ci vuole il coraggio di vivere l’esodo, di uscire allo scoperto, di lasciarsi guidare su sentieri che non sembrano vivi, che mettono a tacere i rumori e le voci del mondo, che sembrano far mancare la vita e il respiro. Non basta l’annuncio e la testimonianza. Serve anche un tirarsi fuori, un fare riposo che diventa esodo. Perché ciò che conta della missione non sono i successi e le adesioni, ma sono gli esodi che si sono compiuti e quelli che sono stati ispirati.

Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato (Mc 6,30)

Dopo essere stati mandati in missione, i Dodici ritornano. Ogni testimonianza e azione nel mondo parte da lui e riconduce a lui e agli altri fratelli perché attorno a lui tutto ritrova il suo centro e ogni cosa è riconciliata. Si ricostituisce così il gruppo che la missione aveva disperso e diffuso.

La missione nel mondo, infatti, non è il lavoro di un libero professionista o di un impiegato a contratto o l’azione di un condottiero solitario. Quando ci sembra che tutto dipenda da noi e dalle nostre forze, che Dio abbia abdicato e ci abbia lasciato soli, che siano lontani da noi anche gli altri che, insieme con noi, condividono il peso di Dio, c’è il rischio di smarrirsi per strada, di restare invischiati nel mondo, di immaginarsi indispensabili, di credere che tutto dipenda solo da noi. La missione diventa allora evasione o fuga lontana, impegno che prosciuga ogni risorsa, fatica che sfianca e fa sentire su di sé il peso e la salvezza del mondo. E nasce ciò che divide e contrappone.

E invece la missione parte da lui, dal suo invio nel mondo, e a lui ritorna. Perché lui tiene insieme i diversi, rende uno ciò che è molteplice, rende vicini i lontani. Attorno a lui ci si può ritrovare e riunire per creare unità, quella nuova, perché solo la croce eretta sul mondo abbatte ogni muro di divisione e conflitto (cf la seconda lettura). 

È Gesù il centro di attrazione e di missione. È lui il cuore da cui il sangue parte e al quale ritorna, un cuore che aspira e pompa di nuovo, che attrae e rimanda lontano. È così il nostro cammino nel mondo, la nostra presenza e la nostra missione. Siamo sangue che diffonde la vita e fa sentire il palpito di un Dio che ama. Non scorre il sangue se non è aspirato dal cuore e poi pompato e mandato fuori. Ed è al cuore che il sangue ritorna per poi da lui andare lontano. Siamo il sangue del mondo, vita attratta che viene mandata, ricchezza ricevuta che viene donata. E anche lontano dal cuore, dispersi e sparsi per le strade nel mondo, sentiamo la spinta e l’attrazione del cuore che ci dona forza, che dà spinta e vigore, che tiene vivo il nostro cammino, che rende vero il nostro fluire. 

La missione riporta quindi a colui che ha compiuto l’invio. Ogni gesto compiuto e parola donata a lui va ricondotta. Per questo i discepoli fanno a Gesù il resoconto del loro viaggio. 

Non raccontano però successi e folle osannanti. Si limitano a raccontare ciò che hanno fatto e insegnato. È da lì che si misura la testimonianza e l’esito di ogni missione. Non dai numeri raggiunti o dalle adesioni o conversioni di massa. Ma dall’autenticità di ciò che si è fatto, dalla verità di ciò che si è detto e insegnato. 

L’esito della missione non è nel risultato ottenuto, ma nella fedeltà di ciò che è stato vissuto. Ciò che conta è che i doni ricevuti siano quelli donati, che il potere avuto sia quello esercitato.

Eppure ancora non basta. 

Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. (Mc 6, 31)

L’invito di Gesù ai discepoli non è l’invito ad un banale riposo, ad una vacanza per rinfrancarli della loro stanchezza. È l’invito a compiere anch’essi un’uscita, perché il mondo nuovo sia fatto e la creazione si compia di nuovo.

È il riposo di Dio nel settimo giorno, il suo cessare da ogni lavoro a concludere la creazione, a renderla bella e finalmente compiuta. È il riposo dei Dodici, il cessare ogni lavoro, il loro staccarsi da ciò che hanno fatto a realizzare e portare a termine la loro missione. È un riposo in disparte, in luogo deserto, lontano dal mondo e dalle folle che hanno incontrato. È riposo che si fa esodo. 

La missione infatti è pienamente compiuta quando i discepoli, accogliendo l’invito di Gesù a riposarsi ritirandosi in un luogo deserto, sanno prendere le distanze da ciò che hanno vissuto. Occorre ritirarsi in disparte, in un luogo che sia deserto. Occorre uscire cioè dal successo, lontano dalla folla che va e che viene sempre incostante. 

E anche il riposo e l’andare in un luogo deserto non sono qualcosa di individuale. Sono i Dodici insieme, e con loro anche Gesù, ad andare in disparte. È la Chiesa che nasce che si ritira nel deserto, si allontana da tutto per provocare un nuovo esodo e una nuova uscita. Ritirarsi lontano da quelli che vanno e che vengono, da quelli che passano, da quelli che vanno da Gesù e dai Dodici come si va al mercato, per soddisfare i propri interessi. Gesù va in luoghi deserti perché cessi questo andare e venire dei molti e finalmente si dia inizio ad un viaggio che sia un nuovo esodo.

A causa dell’andirivieni della folla, non avevano tempo di mangiare. Erano partiti senza cibo e bisaccia, senza provviste né pane. E ora non possono mangiare perché manca loro il tempo. Ma il luogo deserto non offre di certo il cibo, semmai acuisce e rende vera la fame.

Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
E il tempo del riposo dura quanto una traversata. Solo nella barca riescono a stare in disparte, a restare soli con il Maestro che compie così la loro missione. È questo partire per un luogo deserto, questo uscire da tutto, questo lasciarsi dietro ogni cosa e ogni successo, anche la folla che va e che viene, che si trasforma in attrazione.

Il loro partire per un luogo deserto rende il deserto un posto affollato. È lì che vengono attratti quelli disposti a fare un lungo cammino. Molti da tutte le città accorsero là a piedi perché nel deserto è messo alla prova il desiderio di vita, la fame e la sete che si prova nel cuore. 

E i discepoli e noi impariamo che alla missione segue sempre un’attrazione. Prima Gesù manda i discepoli perché siano suo segno e presenza. Ma poi li tira fuori da tutto e impone loro un riposo. Ed è qui che si compie la vera attrazione, il compimento di una vera missione. 

Sono ora le folle ad andare a piedi nel luogo deserto, a compiere l’esodo, la loro uscita. E il deserto diventa vivo e fiorisce, si fa luogo di incontro e di volti, di riconoscimento e d’intesa. 

La gente che ha visto i discepoli all’opera deve ora uscire e mettersi in viaggio, deve sporcarsi i piedi nei luoghi deserti, deve abbandonare il suo mondo e la sua vita per fare esperienza di ciò che conta davvero.

Questa folla è tirata fuori dai suoi criteri, dalle certezze e dalle sicurezze ordinarie. È portata nel deserto perché lì possa udire parole che siano nuove, possa mangiare un pane che viene dal cielo (seguirà infatti la moltiplicazione dei pani).

Il deserto è il luogo dell’amore e della rinascita, del riscatto e della custodia, della libertà e della scoperta di un Dio al quale affidarsi lungo il cammino.Solo nel deserto si possono accogliere parole che siano altre, si può accogliere un cibo che nutra davvero. Ci vuole il deserto per vivere l’esodo, per uscire da ciò che tiene legati, per scoprire di che materia è fatta la vita, di che gusto si nutre la storia. 

L’evangelista ha preparato così una scena che sembra antica. È come quando il popolo fu liberato dalla schiavitù dell’Egitto. I discepoli avevano il potere sugli spiriti impuri. E anche ora non basta che l’uomo sia liberato dal male e dalla sua schiavitù, alla liberazione segue sempre un cammino, una strada che si fa esodo e uscita, che si fa deserto e intesa d’amore.

No, non è una pagina semplice, non dice solo il bisogno di riposo e di vacanza. Non dice nemmeno un cambio di programma. I discepoli devono andare in un luogo deserto per vedere essi stessi che è Dio a compiere l’opera, che serve il loro riposo perché tutto sia pienamente compiuto. 

Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

E lì, nel deserto, si vede bene la compassione di Dio e i volti degli uomini nel loro incerto vagare. È gente che geme ed è in ricerca. È gente ansiosa di vedere e trovare un pastore. 

Gesù guardando la folla provò compassione. Sentì in sé un moto di amore, un sussulto di tutta la vita perché non c’è pecora senza pastore. Le pecore senza pastore errano stanche e sperdute, non trovano né cibo né acqua, sono in balia dei loro nemici, restano lontane dal loro ovile. Sono come pecore che non hanno pastore, come uomini e donne senza difesa, senza calore e dedizione. 

Ed è nel deserto che escono allo scoperto, perché è lì che si resta persi e smarriti se non c’è qualcuno che ti prenda a cuore, che sappia orientare il tuo cammino, che voglia donarti un cibo che renda saldo il cammino. 

E nel deserto, Gesù si mise a insegnare. Perché c’è bisogno di parole che sappiano dire, di parole che lascino il segno, di parole che aprano strade. Prima la parola per insegnare e poi il pane che rende salda la forza e il cammino. Ci vuole la parola perché anche il pane abbia il suo gusto.

E anche i discepoli, lì nel deserto, lontano dagli affanni di ciò che hanno fatto, possono avere insieme a lui occhi nuovi con i quali guardare. 

La missione è avere occhi di compassione, è lasciare che il dolore e lo smarrimento degli altri provochi e dia inizio ad un nuovo cammino. Quella che i discepoli hanno vissuto era solo una prova, un mettersi in gioco. Non devono cambiare davvero il mondo, non devono nemmeno avere successo. Possono soltanto partire da lui e a lui ritornare e in questo movimento vitale coinvolgere gli altri, le cose e la storia.

Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno (Ger 23,3)

Liturgia della Parola

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