Nozze in cui scorre il sangue

II Domenica Tempo Ordinario C (Is 62,1-5; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11)

All’inizio del tempo ordinario, lo sguardo si ferma sulla terza manifestazione del mistero dell’incarnazione (dopo la manifestazione ai Magi e al Giordano).

Giovanni ci conduce, con il racconto del primo dei segni, al cuore del mistero pasquale. Non basta sapere che Dio è venuto nel mondo, non basta riconoscerlo e chiamarlo col suo vero nome. Egli è venuto per manifestarsi all’umanità come sposo che unisce la nostra vita alla sua, nell’offerta del vino buono che sgorga dal suo fianco trafitto d’amore.  

Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli (Gv 2,1-2)

Durante una festa di nozze Gesù manifesta la sua gloria, il suo essere lo sposo fedele che dona ad ogni vita vuota e ormai stanca il dono di un amore che inebria, di un vino che rallegra e consola, di un sangue che unisce e redime.

Le nozze sono festa d’amore e di letizia, di dono e di accoglienza, di futuro e di promessa, di vita che preme per nascere perché si moltiplichi la gioia e l’amore. Dio, già nei profeti (cf. la prima lettura), gioisce come uno sposo ed è pronto a donare se stesso per rendere bella e degna l’umanità. Non importa in quale condizione ella si trovi, lui che l’ha scelta sa come renderla bella e ricolmarla di ogni delizia. 

Quello di Dio è amore totale, che abbraccia e riveste la vita, perché vuole che la gioia di tutti sia piena. Egli si manifesta perché ognuno veda e riconosca che non c’è un Dio da temere, col quale competere o dal quale scappare, ma solo uno sposo che ama e risana, che rende degni e unisce a sé. Egli è uno sposo che ama e dona la vita alla sua sposa. 

Ma non bastavano le parole dei profeti, Gesù manifesta nel segno ciò che poi, nella sua ora, sarà pienamente compiuto. 

Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino» (Gv 2,3)

La madre vede ciò che già manca, ciò che non dura se qualcuno non dona, ciò che sempre finisce perché è ciò di cui tutti hanno sete. Non hanno più vino, non hanno più festa, non hanno più amore, non hanno più vita. Non hanno più il senso della benedizione, non sentono più che Dio è tra loro. Non hanno vino perché la vita è spesso arida, perché basta poco per restare vuoti, per fermarsi incerti senza speranza, senza più gioia e senza ardore. Il vino è venuto a mancare. È venuta a mancare la vita perché la vita si consuma e si corrode, si sfilaccia e diventa esile. Il vino è il segno del canto, il segno dell’amore e del Dio che viene, della promessa e del futuro, della presenza e della scoperta. Non si può essere in festa se manca il vino, non si possono festeggiare le nozze se viene a mancare l’amore. E a volte anche alla fede manca il vino e si riduce a favola spenta, a gestione del proprio vissuto, a trattazione di cose ordinarie, a regolamenti e cose di comodo. E noi sappiamo che ancora ci manca vino, che quello che abbiamo è adulterato e andato a male, oppure troppo annacquato, senza sapore e senza odore, senza ebbrezza e senza coraggio. Non abbiamo più vino. Non abbiamo più ardore, né voglia di danza.

Anche alle nozze può mancare la festa, anche alla fede può mancare l’amore, anche all’incontro può mancare la gioia, anche a chi è vivo può mancare la vita. Si può restare cristiani senza più gioia, credenti senza più amore, fedeli senza più ardore, umani senza più leggerezza. 

Ma a quelle nozze, c’era la madre. Ella era lì, presenza e segno. Come se fosse Israele rimasto fedele, il popolo e ciascuno di noi, la Chiesa e ogni fratello. 

La madre vede che non ci basta quello che abbiamo, che ci serve un vino che spezzi il grigiore, ci serve un amore che vinca i timori, ci serva una vita che vinca la morte.

La madre donna che si fa sposa. È segno di tutta la Chiesa. 

Non hanno più vino, ella dice anche oggi. E dovremmo dirlo anche noi, dovremmo vedere e riconoscere che manca il vino in questa fede, che manca il vino in questi precetti, che manca il vino in queste morali, che manca il vino in questa vita. Dovremmo vedere e dirlo chiaro che manca vino in questo mondo, che manca vino tra i credenti, che manca vino nella nostra vita.

E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4)

Gesù, però, a sua madre, risponde a tono: “che vuoi da me?” 

Non è scortese o poco garbato, è solo esigente che ogni cosa sia chiara. Che vuoi da me? Che poi sarebbe: che c’è tra me e te? Tenta cioè di mettere le cose in chiaro, di ristabilire i giusti rapporti, di creare le giuste alleanze. Mette a posto le cose e i ruoli, mette a posto le relazioni. Che c’è oggi tra Cristo e la Chiesa? Può essa dire ancora: non hanno più vino? 

Dovremmo ancora lasciarci chiedere da Gesù: Chiesa, che vuoi da me? Umanità, che vuoi da me? Cosa c’è tra me e voi? E dovremmo ripeterci: cosa vogliamo davvero? cosa vogliamo quando, tra mille analisi, dichiariamo che non c’è più vino, non c’è più gioia e leggerezza, non c’è più fede e nemmeno amore? Forse, pensiamo di risolvere da soli il problema, di continuare ad affannarci, di sostituirci a lui che è lo sposo.

Eppure dobbiamo continuare a dirgli che non hanno più vino, per non rischiare di diventare custodi di anfore vuote, attenti a noi stessi e al nostro valore. 

Gesù rimanda quindi alla sua ora, che non è giunta ancora. Qui, nel racconto di queste nozze, c’è solo il segno di ciò sarà realizzato. C’è un’ora per la quale egli è venuto, per la quale è entrato in questa storia. La sua ora è quella del dono e della croce, l’ora del sangue e del respiro, in cui tutto viene consumato, in cui ogni disperso è richiamato, ogni lontano diventa vicino, ogni perduto è ritrovato. È l’ora in cui ogni sguardo viene attirato, ogni sete è ravvivata. È l’ora in cui sgorga, dal tempio nuovo, l’acqua che lava e il sangue che salva. È l’ora in cui scorre il nuovo torrente che in ciascuno diventa sorgente. È l’ora in cui l’Incarnato si fa crocifisso. 

La sua ora è quella della croce, quando egli dona il suo corpo e la sua vita per rendere l’umanità una sposa feconda. Egli, nella sua ora, unisce a sé la sposa donando il suo corpo e il suo sangue, donandole lo Spirito perché quell’unione renda feconda la storia umana.

È quella l’ora che ci permette di vedere e accogliere la sua gloria. È quello il momento in cui Dio gioisce della sua sposa, perché l’ha resa degna, l’ha lavata e rivestita con la tunica cucita tutta d’un pezzo. 

A Cana, davanti alla sollecitazione della madre, Gesù indica e mostra, nel segno di ciò che sta per fare, ciò che nella sua ora sarà compiuto. Mostra il senso di ciò che lo attende, orienta gli sguardi al suo mistero, mostra l’amore di cui è capace. 

Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono (Gv 2,5-8)

Mi piace questa madre che è Chiesa, questa donna che qui e sotto la croce si mette in mezzo tra Gesù e i servi, tra Gesù e i discepoli. E questa Chiesa continua ad essere madre se è attenta alla sete del mondo e sollecita i servi perché facciano ciò che egli dice, perché accolgano ogni sua parola. Ella mette in allerta i servitori. Sa che ciò che tra poco sarà loro richiesto potrebbe confonderli. Sa che essi potrebbero accampare mille ragioni e obiezioni, tanti distinguo e differenze. Eppure ella li invita a fare qualsiasi cosa egli dirà. Ci vuole la madre che dica ai servi che ciò che egli dice è cosa buona.

E Gesù, infatti, dice qualcosa che è molto chiaro. Guarda alle giare di pietra usate per la purificazione rituale, per soddisfare la legge e le pratiche religiose. Sono giare rimaste vuote. Perché se manca il vino, anche ogni gesto religioso è inutile e privo di vita, è vuoto e senza valore. Eppure Gesù chiede ai servitori di riempire d’acqua proprio quelle sei anfore di pietra. Egli non ricrea le cose dal nulla. Entra in ciò che abbiamo e in ciò che siamo. Non bastano più riti che siano esteriori, lavaggi e cose che non rinnovano il cuore. Per questo quelle anfore sono vuote. Ma Gesù utilizza proprio quelle e chiede che siano di nuovo riempite. Egli sa che non basta l’impegno umano, gli sforzi e la morale, non basta la buona volontà. Se manca il vino tutto si svuota. Eppure è a partire da ciò che siamo, dal vuoto che siamo diventati, persino dalle pratiche rimaste esteriori e formali che egli inizia a donare qualcosa di nuovo. Egli non butta via nulla di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Solo dobbiamo rimettere al centro la sua parola, dobbiamo fare ciò che egli ci chiede.

Perché il vino non viene dal nulla, bisogna che almeno l’acqua sia portata dai servi, che quelle giare vuote ritornino a colmarsi con l’acqua nuova attinta per la sua parola.

Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui
(Gv 2,9-11)

E qui le immagini si sfumano e si confondono. E ora, lo sposo, che non è mai comparso, viene chiamato in causa. E allora appare chiaro che è Cristo lo sposo, perché è lui ad aver messo in tavola solo ora il vino buono. I servi sapevano da dove veniva quel vino, e anche noi ormai lo sappiamo. 

E noi possiamo ancora, come buoni servi, preparare il terreno, recuperare l’umano, riempire di senso e significato ciò che sembra perduto, dare contenuto a ciò che appare svuotato, ritornare al cuore di ciò che facciamo, ma solo lui potrà trasformare tutto nel vino buono. E quel vino è sangue e vita che scorre, che si dona e rende fecondi, che unisce i cuori in alleanza sponsale, che ridona gioia ed esultanza. 

Quelle di Cana sono nozze in cui scorre il vino in attesa della sua ora in cui a scorrere sarà il sangue, vita donata, fiume che feconda la storia. 

A Cana si è compiuto il primo dei segni, l’inizio della manifestazione della gloria, che sulla croce ha il suo compimento e la sua consumazione. È questa la gloria di Dio, che risplende nel sangue che ci scorre dentro, nella vita divina che ci è stata donata. 

Non ci bastano gli otri e l’acqua. Ci vuole qualcosa che penetri dentro, un dono di vita che rinnovi la vita. Ci vuole il vino e ci vuole sangue perché l’amore è Dio che ti è entrato dentro, che ha preso la sua vita e l’ha unita alla tua.

Liturgia della Parola

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