Scelti per essere segno

XV Domenica Tempo Ordinario Anno B (Am 7,12-15; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13)

È bello sapere di essere eletti e chiamati, figli e quindi anche eredi. Ci immaginiamo diversi dagli altri perché abbiamo accolto una chiamata e un appello. Eppure il nostro non è un privilegio. Non è un merito essere credenti e cristiani. È un compito che ci è affidato, una missione che ci è stata donata. E ogni volta che ci sentiamo migliori degli altri dobbiamo ricordare che è proprio per loro che siamo stati chiamati, è a loro che siamo inviati. Non siamo cristiani per noi stessi, ma per essere strumento della vita e della gioia di tutti. E ognuno è inviato lì dove si trova a vivere e operare. La fede non è un ritagliarsi un angolo di mondo nel quale trovare pace, ma è rottura di ogni nostra quiete personale per impegnare la vita, per essere annuncio, segno e presenza di Colui che ci ha scelti e chiamati. 

Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli  (Mc 6,7)

Siamo eletti per essere santi e questo ci impegna, ci spinge ad andare a trasmettere un dono, a diffondere e offrire una nuova presenza.

Non ci si mette dietro a Gesù per vivere in pace e salvarsi la vita. La fede non è intimismo raccolto, non è salvarsi l’anima e nemmeno un quieto riposo. Fede è scendere in campo e per strada, è sporcarsi i piedi e le mani, è uscire da sé per dare forma e vita ad un incontro, quello, sempre nuovo, tra Dio e l’umanità. 

E forse di tutte le parole di questo Vangelo la più difficile da riconoscere è proprio questa “prese a mandarli”. È questo il motivo per cui siamo scelti. Non siamo tirati fuori dal mondo, non siamo liberati dalle fatiche del tempo, non siamo rinchiusi in teche per farci ammirare. I Dodici e con essi anche noi siamo scelti ed egli ci ha chiamati a sé per stare con lui. Ma non si sta pienamente con lui se non accogliendo il suo invito ad andare tra gli uomini, condividendo con loro il cammino. 

Si è davvero con lui solo andando lì dove egli ci invia e ci rimanda. Si può andare altrove solo accogliendo la voce di Colui che ci chiama a sé. È qui il paradosso, il rischio e lo scacco. 

Bisogna stare con lui per imparare a stare con tutti e a tutti portare un po’ di lui, un po’ del suo amore e del suo essere cura, del suo essere custodia e fonte di vita. E bisogna andare da tutti perché solo così si rimane davvero con lui, che si è speso e donato per tutti. 

Restare con lui ed essere mandati: non sono due alternative o opzioni possibili, non ci sono scelte da fare. È forse questo oggi il vero problema della nostra fede e del nostro essere Chiesa. Tenere insieme ciò che a noi sembra impossibile: il primato di Dio e il primato dell’uomo, l’amore per lui e per i fratelli ai quali egli ci manda, il restare con lui e l’andare lì dove egli è sembra assente e lontano, lì dove siamo noi a dover diventare suo segno e presenza.

Non basta quindi sognare una Chiesa che sia pronta ad accogliere e ad abbracciare, serve anche una Chiesa che sappia andare presso ogni uomo, sappia farsi presente per annunciare, mostrare e rendere vivo il mistero d’amore che ha ricevuto, per ricordare che può esserci un mondo migliore che rende presente già ora e già qui quello che è oltre ed è altrove. 

a due a due… (Mc 6,7)

Non si va agli altri da soli, perché non si regge da soli il peso di Dio. Si è mandati “a due a due” perché è già lì il segno di qualcosa di nuovo, di una comunione che si è fatta possibile, di un amore che si è fatto visibile. Si è mandati per testimoniare diventando noi stessi un messaggio, dicendo con lo stile e la sola presenza che è possibile anche l’amore, che si può uscire dall’isolamento e dal tornaconto, dalla voglia di avere ragione. Inizia così l’annuncio di un amore che vince ogni chiusura, di una comunione che scardina ogni rancore, di una fiducia che rompe ogni sospetto. 

É qui che nasce ogni fraternità. Non si è Chiesa se non insieme, non si è discepoli se non con gli altri, non si è testimoni e annunciatori se non si vive la sinfonia della vita.

Ed inizia da qui la testimonianza, da questi due cuori che viaggiano insieme, che muovono insieme i passi nel mondo, che dicono insieme, con storie e parole diverse, quell’unica storia e Parola divina che li ha presi e liberati dal male. 

E si è in due per testimoniare non ciò che si è o si vuole, ma ciò che si è visto e ricevuto. Si è in due perché nessuno ceda alla tentazione di portare e annunciare se stesso. Non si annuncia qualcosa di proprio, non si offre solo la propria esperienza, ma si annuncia e si dona Colui che si è fatto conoscere. E a due a due questo è più vero, perché la testimonianza diventa credibile, è un dono che si moltiplica, è un’esperienza vera che risuona in ciascuno.

dava loro potere sugli spiriti impuri (Mc 6,7)

Si è mandati senza forze e poteri speciali, senza privilegi o lasciapassare. Non ci è dato il potere sul mondo, non abbiamo potere sugli altri. Solo un potere è concesso e donato, quello contro gli spiriti impuri. È singolare che sia l’unico potere citato. Al di là di tutte le interpretazioni e letture possibili, anche oggi per noi il compito resta uguale. Abbiamo il potere di vincere il male, di sconfiggere ciò che toglie splendore e bellezza ai volti che incontreremo. Abbiamo un’unica forza: vincere gli spiriti che rendono impuri, che sacrificano l’uomo e la sua bellezza, la sua dignità e il suo valore. E anche quando sembra che il male stia avendo la meglio resta l’ultimo e supremo potere, quello della preghiera. Gesù stesso insegnerà ai discepoli che ci sono spiriti che possono essere scacciati solo con la preghiera, affidando a Dio tutto ciò che noi non siamo in grado di fare.

E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. (Mc 6,8-9)

Per il viaggio, che è il cammino di tutta una vita, non serve nulla: solo il bastone, i sandali e una tunica. E una fiducia immensa in Colui che ci manda.

Non serve denaro, né sacca, né pane. Perché l’annuncio ha inizio da qui, dall’aver fede e restare sospesi, con un’intima convinzione che si fa certezza vissuta: non servono pani quando c’è con noi l’unico “pane”, quello stesso che viene spezzato e donato ai fratelli. 

La testimonianza, l’annuncio, l’evangelizzazione non sono frutto del nostro operare, non sono l’esito del nostro impegno, non sono la risultante delle nostre risorse. A noi è chiesto solo di andare e di metterci in gioco mettendo in gioco la vita, di avere una fede immensa che ci permetta di restare precari e insicuri, indifesi e in balia di ogni cosa. 

E quando oggi si fanno mille analisi su come riempiere le chiese, su come reagire alla “fine del cristianesimo”, sull’incredulità di questa generazione, sulle strategie missionarie, su come annunciare con efficacia… si rischia di dimenticare che tutto ciò dice già una mancanza di fede, una scarsa fiducia in Colui che ci chiama a sé per mandarci altrove. E forse oggi i problemi dell’evangelizzazione non sono i mezzi, le strategie e gli strumenti che mancano. Forse mancano semplicemente vite credenti, mancano uomini e donne che sappiano andare nel mondo fidandosi solo di una parola.

Ciò che serve è mettersi in viaggio, uscire dai porti sicuri, dai recinti che sembrano sacri e incontrare l’umanità lì dove essa vive, spera e dispera. Senza altra ricchezza, altre pretese, altri mezzi se non la forza del dono che abbiamo ricevuto per donarlo e renderlo vero e vivo per gli altri. 

La forza, l’efficacia e la verità dell’annuncio risiedono solo in Gesù, è lui l’origine della nostra missione, è lui il garante di ogni successo che non sia mondano. 

E proprio la povertà della missione è il segno efficace della fede che abbiamo. È il nostro stile che annuncia, è la nostra povertà che mostra la fede che abbiamo. È una fede che diventa visibile.

Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro (Mc 6,11)

Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno (Am 7,12-13)

La missione dei Dodici ha inizio dopo il rifiuto che Gesù subisce a Nazareth ed è seguita dall’uccisione di Giovanni il Battista. Il contesto non è dei migliori. Non c’è mai un tempo opportuno o favorevole. É proprio nel momento peggiore che Gesù dà inizio al viaggio e alla missione dei Dodici. E c’è sempre per tutti il rischio di non essere accolti e nemmeno ascoltati.

Non deve spaventarci o turbarci. È successo anche ad Amos e agli altri profeti. Egli fu ritenuto un veggente e un visionario, un semplice commerciante di sogni. Fu confuso con i ciarlatani di sempre, quelli che vivono sulle spalle dei poveri offrendo visioni e inventando futuri. 

Può sempre accadere che il nostro stile di vita, il nostro sogno divino, il nostro desiderio di bene, il nostro essere segno del regno che viene sia considerato visionario, fantasia e utopia impossibile all’uomo. I poteri e i regni del mondo hanno sempre paura del soffio divino, dell’amore che risolleva, della passione che libera e sana.

Davanti al rifiuto, però, occorre restare fedeli. Non serve abbattersi e lamentarsi, non serve nemmeno intestardirsi e dare inizio a sfide estenuanti. L’annuncio a cui siamo chiamati non è una sfida col mondo e nemmeno una prova di forza. Non è una gara a chi cede per ultimo. È proposta che viene donata. Se non c’è né accoglienza né ascolto è meglio proseguire oltre perché non c’è tempo da perdere e, soprattutto, non ci sono successi da collezionare. 

Non siamo noi a convertire e salvare i fratelli, a noi tocca solo annunciare col nostro modo di vivere che una conversione è possibile, che una liberazione può essere accolta, che una guarigione è pronta per tutti.

Gesù indica ai discepoli solo un gesto da compiere davanti a un rifiuto. Era semplice e proverbiale: scuotere la polvere sotto i piedi. Lo usavano gli Ebrei dopo aver attraversato regioni pagane. Il gesto significa che non si ha nulla a che fare con quella terra. Non è un segno di sfida, ma una dichiarazione di libertà. Non si può restare invischiati nei conflitti, non si può portare con sé il peso di compromessi. Si scuote la polvere perché i piedi restino puri e leggeri per compiere nuovi cammini. 

E Gesù indica che quel gesto deve essere una testimonianza contro di loro e per loro (entrambe le traduzioni sono infatti possibili). Si testimonia contro di loro non per additare e condannare, ma per lanciare un ultimo appello, l’ultimo sollecito che rende pressante l’invito. Si ricorda così, in modo simbolico e plateale, che si è compiuto un rifiuto, che si è impedita una comunione, che si è frapposta una rottura. 

Ma quel gesto è anche testimonianza per loro perché ricorda che non sono i piedi ad essere malati o infettati. Anche i piedi di ognuno, come quelli dei discepoli, possono scuotere la polvere che li ha resi sporchi, le complicità che li hanno resi impuri, le chiusure che li hanno resi sordi e insensibili all’annuncio di qualcosa di nuovo. Quella polvere del suolo si attacca ai piedi di tutti e ciascuno può ancora scuoterla, può ancora cambiare vita. Vi è possibilità di ritornare leggeri, di rimettere i piedi su sentieri e terreni diversi. 

Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano (Mc 6,12-13)

E in questa missione non ci sono parole da dire né discorsi da fare. Non sono quelli che fanno la differenza. Ciò che conta è lo stile di chi viene mandato. Si tratta di essere segno e presenza del regno che si è fatto vicino, del regno che vive già in mezzo a noi. I discepoli fanno poche cose, quelle che servono: proclamano la conversione, scacciano i demòni e ungono i malati perché siano guariti. La missione è compiere segni che dicano il regno, che lo rendano vivo e presente nel tempo. Aver fede è compiere già la trasformazione del mondo e della storia, ponendo segni di liberazione umana, segni che rendano visibile l’amore di Dio che risolleva e libera, risana e guarisce. I credenti sono mandati per rendere visibile il volto di chi li ha inviati, per ricordare che può esserci un mondo migliore che rende presente già ora e già qui quello che è oltre ed è altrove. 

Liturgia della Parola

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